Non ricordo esattamente quando ascoltai per la prima volta una canzone di Mike Oldfield. O meglio, lo so, ma quand’ero piccolo credevo che Moonlight Shadows fosse della donna che cantava nel video e non del chitarrista che le stava accanto. Solo qualche anno dopo scoprii che lei si chiamava Maggie Reilly e fungeva da occasionale vocalist per composizioni “cantate” del tipo, Mike Oldfield che, seppure giovane, era già in giro da un po’…

Da un bel po’! Esattamente dall’anno della mia nascita, il 1973, quando, ventenne, sconvolse il mondo e permise all’altrettanto giovane Richard Branson (quello di Virgin, per intenderci) di iniziare ad accumulare la sua immensa fortuna, con Tubular Bells, il concept album strumentale in cui l’artista suonava tutti gli strumenti ed il cui tema principale venne usato ne L’Esorcista, con una certa efficacia.

La mia scoperta dell’opera di Mike Oldfield, che tutt’ora è uno dei miei musicisti preferiti (è l’unico per il quale ho affrontato un viaggio all’estero per seguirne un concerto), è stata quindi un percorso al contrario, perché alla fine degli anni ’80, quando iniziai a comprare i suoi album, lui era già famoso da un pezzo e, ma questo l’ho scoperto col passare degli anni, le cose migliori le aveva già pubblicate. Nonostante la sua apprezzata prolificità, per quanto mi riguarda il top della produzione Oldfieldiana, è sintetizzato nei suoi primi tre album, fatti uscire nell’arco di due anni e mezzo: Tubular Bells, Hergest Ridge e Ommadawn.

Ad accomunare queste tre opere, che rappresentano pietre miliari nella storia della musica, è la loro struttura: due movimenti strumentali, uno per lato (ai tempi c’erano solo gli LP…) che, a loro modo, raccontano storie, luoghi, sensazioni e umori dell’autore e, inevitabilmente, di chi si trova ad ascoltarli.

Questo lungo preambolo, che per certi versi non è ancora finito), serve ad introdurre la “recensione” dell’ultima fatica di Oldfield, che s’intitola, appunto, Return to Ommadawn. Dai tempi dell’originale è passata parecchia acqua sotto i ponti. Io sono invecchiato cresciuto, continuando ad ascoltare la musica di Oldfield, che però, fatta eccezione per alcuni dischi venuti veramente molto bene (Crises dell’83, The Songs of Distant Earth del ‘94) non è mai riuscito a tornare agli standard del suo terzetto di album iniziale, con gli ultimi anni davvero pessimi sotto il profilo compositivo (per non parlare dell’assurda mungitura del brand Tubular Bells, oramai esangue).

Return to Ommadawn è invece un lavoro nobile e ben riuscito. Rispettoso nella forma (due movimenti per “facciata”) e nei contenuti, che si muove, un po’ come l’originale, in diversi territori, che spaziano dall’art-rock al jazz, dal folk all’elettronica, senza soluzione di continuità. Le schitarrate di Oldfield, oramai attempato e venerato musicista che non ha più nulla da dimostrare, sanno ancora far venire i brividi e trasportare l’ascoltatore in un mondo altro, mistico e magico, fatto di campagne e boschi, natura e lontananza dalla civiltà.
Insomma, pare che colui che una volta venne definito “un uomo solo e un’orchestra intera”, sia ancora capace di stupire e meravigliare, anche in tempi cacofonici e rumorosi come quelli odierni.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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